Il Memoriale della Shoah a Milano: un luogo per non dimenticare
In occasione della Giornata della Memoria, i ragazzi di terza media hanno visitato il Memoriale della Shoah presso il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano. Da questo luogo, in meno di due anni tra il 1943 e il 1945, sono stati deportati nei campi di concentramento e sterminio più di 7.000 ebrei italiani.
Ecco alcune riflessioni dei ragazzi.
Indifferenza
Una volta entrati siamo stati accolti da un gigantesco muro di cemento armato con sopra scritto in gigante la parola “indifferenza”. Questa parola è stata il filo conduttore di tutta la visita. Indifferenza. L’indifferenza è girarsi dall’altra parte e non guardare. Indifferenza è far finta di niente e pensare che niente sia successo, è tornare alla normalità. Ma l’indifferenza è anche non farsi domande sull’accaduto e sul perché. L’indifferenza è soprattutto non prendersi le proprie responsabilità qualunque cosa sia successo; ed è proprio per questo che la Shoah si è diffusa lasciando “dietro di sé” una fila di morti pari a sei milioni di ebrei. Tutto questo proprio per l’indifferenza di molte persone che hanno “chiuso gli occhi” davanti a quello che stava avvenendo. (Matteo)
Come un animale in trappola
Entrando nel vagone del treno sapevo già cosa avrei visto: avevo già visto molti film dove caricavano gli ebrei sul treno e li spedivano nei campi di concentramento e di sterminio, ma non pensavo di sentirmi così a disagio su un mezzo di trasporto del genere. Dentro quel vagone mi sentivo come un animale in trappola, mi immaginavo di essere lì, anche nei mesi più freddi e più caldi dell’anno, costretta a fare un viaggio insieme ad altre settanta persone sconosciute, con un solo secchio d’acqua per bere, e uno per i bisogni. Niente privacy, per gli altri sarei stata un animale, altro che umana, la mia vita non avrebbe avuto un valore, a nessuno sarebbe interessata la mia salute. Provavo ad immedesimarmi nei bambini, anche piccoli, che magari non sapevano bene cosa stesse succedendo, volevano solo tornare a casa a giocare, saltare, correre… e invece aspettava loro solo un lungo periodo triste e solitario, dove un qualsiasi passo falso sarebbe costato la vita. Io se fossi stata in quelle persone mi sarei chiesta: “Perché? Perché tutto questo proprio a me? Che cos’ho di sbagliato?”. (Anna)
Immedesimarsi
Una cosa che mi ha colpito molto della gita al Memoriale è stata sicuramente il poter vedere i vagoni in cui più di novanta persone venivano stipate per viaggi di quasi sette giorni. Questa situazione mi ha messo molto alle strette perché mi ha come obbligata ad immedesimarmi in quelle persone e quindi a provare le stesse loro sensazioni; la paura, la mancanza di respiro, l’inconsapevolezza della meta e della durata di quel viaggio. Mi ha toccato il cuore soprattutto il fatto che persone anziane, addirittura ultranovantenni, erano costrette a stare in quelle condizioni e molto probabilmente, per la fame, la mancanza d’aria, la stanchezza, morivano durante il viaggio solo perché appartenenti al popolo ebreo. (Angela)
Questa esperienza è stata molto toccante e mi ha insegnato molto. Ovviamente sapevo delle cose che accadevano durante il periodo dei campi di concentramento, ma comunque facendo questa gita mi sono sentita più vicina alle cose accadute, vedendo e potendo toccare con le mie stesse dita un edificio dove sono successe cose terrificanti. (Sofia)
Testimoni
Mi ha sconvolto profondamente la testimonianza di Liliana Segre, che abbiamo potuto vedere in un video preso dal film “Memorie”. In questo video si vede lei che visita il carcere San Vittore, dove era stata imprigionata insieme a suo padre, e racconta di quando è stata “caricata” sul treno con lui. Di tutto il video il pezzo più commovente è quello in cui racconta dell’ultima volta in cui ha visto suo padre, prima che li facessero entrare ad Auschwitz, dove poi lui è morto. È stato veramente difficile per me rimanere lì seduta ad ascoltare mentre lei raccontava, non riuscivo a non pensare a come sarebbe stato se fosse successo a me e a mio papà, e non sono riuscita a trattenermi dal piangere. Mi conforta però sapere che Segre è riuscita a sopravvivere a questa atroce esperienza e la ammiro perché riesce tuttora a conviverci e ad avere la forza di condividere con gli altri i suoi ricordi, per quanto dolorosi siano. (Alice)
Un nome e un cognome che indicano me, me e nessun altro.
Tutti abbiamo un nome e credo che questo sia la prima cosa a renderci umani, a renderci una persona con un certo valore, a dimostrare che non siamo tutti uguali, ma ognuno ha una combinazione di lettere che lo rende unico. Qualche giorno fa io e la mia classe siamo andati in visita al Binario 21. Questo non è un binario qualsiasi, è quello da cui 20 treni sono partiti per diversi campi di concentramento e sterminio. Ora quel luogo è diventato un memoriale per le persone che lo vogliono visitare e ricordare ciò che accadde proprio tra quelle mura anni prima.
La cosa che mi ha colpito di più di tutto il memoriale è stata una grande parete di nomi. Può sembrare molto semplice come cosa e forse una delle meno toccanti viste, eppure essa mi ha tolto ogni parola dalla bocca. Erano i nomi e i cognomi dei quasi 800 passeggeri dei primi due treni partiti dal Binario 21. La cosa che mi ha colpito è stata innanzitutto quante persone fossero andate incontro a quella tragedia: finché si sente solo un numero è difficile immaginare una quantità, quando però si vedono tutte quelle colonne di nomi e si pensa che vanno moltiplicate per 10, la quantità è molto più evidente e mi rende impossibile restare indifferente davanti a una simile tragedia, ogni nome mi tocca e mi fa realizzare sempre più la gravità e la drammaticità di cosa è successo. Inoltre mi ha colpito come chi andava a prendere a casa le persone destinate ai campi di concentramento e chi le metteva sui treni aveva un vero e proprio elenco con le persone da prendere. Conosceva la loro identità, questo rende ancora più difficile trattare quella determinata persona come un oggetto, o vedere gli ebrei come una massa. Da quando ho visto quella parete non posso pensare alla tragedia come una cosa accaduta a un gruppo di persone, ma a qualcosa accaduto ad ognuno di loro, a migliaia di persone che una a una hanno sofferto, una a una hanno dovuto vivere una vita neanche degna di essere chiamata tale, una ad una sono state scelte e uccise, scelte e dichiarate non degne di vivere la loro vita, di essere al mondo. (Letizia)
Morire salvando una vita, per rimanere liberi e umani
Guardando a ciò che è accaduto sorge una domanda; davanti a coloro che prima erano considerati uomini e che successivamente venivano sterminati come se fossero inferiori, come si poteva rimanere indifferenti? Veramente il loro valore si riduceva alle idee imposte su di loro, o si poteva andare oltre? Coloro che manovravano i vagoni dove venivano stipati i deportati hanno scelto di rimanere indifferenti davanti a quello che accadeva, eppure c’era chi, a proprio rischio, assumeva un atteggiamento diverso; ci è stato raccontato di un uomo che, dopo aver difeso un ebreo, è stato scoperto a causa di alcune tracce rinvenute nel nascondiglio e, dopo aver confessato, è stato ucciso. Ha perso la vita, e forse l’ha persa anche l’ebreo che ha tentato di difendere; ma ha riconosciuto che valeva la pena rischiare per salvare una vita, ed è rimasto libero. Delle testimonianze mi ha colpito una frase pronunciata da Liliana Segre, la quale diceva che, guardando il cielo, ha trovato la forza di proseguire; la sua frase si contrappone a tutto ciò che veniva detto riguardo agli ebrei, alla loro presunta inferiorità, al fatto che nemmeno fossero umani: invece lei, dopo aver sofferto, ha ritrovato il desiderio e la forza di vivere, è anche in questo che si manifesta la sua umanità. (Agata)