Il binario 21 della Stazione Centrale di Milano, un luogo per ricordare
Ricordare bisogna sempre. Sono convinta che bisogna ricordare ciò che è stato in quegli anni terribili da quando in terza elementare, il 27 gennaio, la mia maestra di italiano ci raccontò della Shoah.
In occasione della Giornata della Memoria, i ragazzi di terza media hanno visitato il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
Di seguito il racconto della visita nelle parole di una studentessa.
La storia del Binario 21
Dalla stazione centrale di Milano tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944, ben venti treni carichi di persone partirono in direzione di Auschwitz. Per i nazisti, che in Italia non avevano trovato il consenso del popolo alla deportazione degli ebrei come in altri paesi, la stazione era perfetta essendo fatta a due piani, quello superiore per le persone e l’altro inferiore per le merci, nascosto e defilato, ideale per nascondere l’opera dai nazisti.
Dopo la guerra nessun superstite riconobbe che era partito da lì, infatti il binario venne usato dalle poste, e non si sapeva che gli ebrei erano stati deportati da quel binario. Negli anni Ottanta si decise di costruire un supermercato, ma un ferroviere in pensione si ricordò che in quel posto, durante la guerra, venivano deportati gli ebrei, avendo egli stesso visto alcuni dei convogli per l’inferno. Fu così che, grazie anche all’incentivo dato da Liliana Segre, venne aperto il memoriale del Binario 21, un museo dove si cerca di tener viva la memoria di chi è morto, senza cadere più nell’indifferenza.
Quando inizia la visita, si arriva dalla Milano moderna, pulsante e mondana, senza pensieri, al museo e si sbatte contro la parola “INDIFFERENZA”, incisa su un grande muro.
È messo a simboleggiare l’indifferenza con cui furono accolte le leggi razziali del ’38 dai cittadini italiani che non ne venivano colpiti.
L’indifferenza è una delle cose che rende il museo attraente, infatti la persona che entra vuole scoprire il vero significato di quella parola, che inizialmente può sembrare una parola qualsiasi. Il museo, allestito in modo semplice e chiaro, è molto evocativo e, anche se non è molto grande, fa uscire il visitatore cambiato.
Immedesimarsi per non dimenticare
I vagoni del treno sono piccoli, angusti, con minuscole finestre che non fanno passare l’aria e la luce. Il viaggio durava sette giorni, senza cibo né acqua, in ogni vagone erano ammassate circa settanta persone. Con la mia classe siamo entrati tutti su un vagone contemporaneamente in trenta e ci si sentiva già soffocare. Erano viaggi disumani, gli uomini erano trattati come bestie. Toccando quelle assi di legno, non potevo fare a meno di pensare che quelle stesse travi che io ora toccavo erano state sfiorate magari dai piedi di un bambino che per l’ultima volta aveva dormito un sonno tranquillo tra le braccia della madre. A esse si erano appoggiate le teste di due innamorati che si davano un ultimo bacio. Le mani di una figlia le avevano strette mentre lei guardava per l’ultima volta i suoi genitori. Mentre toccavo quelle travi pensavo a tutte le storie, tutte le vite che sono andate perdute, e che in quei treni hanno vissuto per la maggior parte gli ultimi giorni di speranza della propria vita. Quante vite non hanno potuto nascere, quante non hanno potuto crescere, quante non hanno potuto compiere il proprio destino, tutte erano passate per un vagone simile a quello.
27 su 774
I convogli partiti da Milano trasportarono complessivamente 774 persone delle quali solo 27 poterono prendere il treno che le riportò indietro. I loro nomi sono tutti scritti su una parete del memoriale, decine e decine di nomi bianchi tra cui ogni tanto ne appare uno giallo, quello di un sopravvissuto.
Dentro il memoriale ho ascoltato la testimonianza di un uomo che si è salvato; nel video ha detto molte cose e due mi hanno colpito maggiormente. Ha ricordato la propria famiglia; era arrivato lì ad Auschwitz con dieci familiari tra genitori, nonni, nipoti, fratelli e sorelle, ma è il solo che si è salvato. Racconta anche di come i tedeschi rendessero l’appello nel campo di sterminio la tortura più grande; l’appello di solito è un momento bello che ti fa dire che ci sei, che un momento senza di te sarebbe diverso. Per i tedeschi era invece il modo per cancellarti l’anima, togliendoti il tuo nome, e ricordarti che eri solo un numero. Ho letto infatti di storie di madri che di nascosto andavano nella baracca dei figli a ricordargli come si chiamavano e chi erano.
Ecco, credo che sia importante ricordare tutto quello che è stato, questa tragedia nella storia dell’umanità, fare memoria di ciò che è stato in nome di tutti coloro che sono morti in quei campi, perché la loro vita non finisca nell’oblio. Noi dobbiamo prenderci la responsabilità di ricordare ciò che è stato perché non riaccada mai più una tragedia del genere nella storia di questo nostro mondo.
Alice Fraulino. Edoardo Calvo